Recensione di Elena al libro DISCESA ALL’INFERNO di Doris Lessing

Un uomo. È stato derubato. È in stato confusionale e parla di correnti, zattere e naufragi; dice di chiamarsi ora Giasone ora Giona ora Sinbad. I medici e le infermiere della clinica dove la polizia lo ha condotto lo mettono sotto sedativi e lo interrogano nella speranza che gli ritorni la memoria.
Oppure.
Un messaggero. È stato mandato sulla terra per salvarla dall’individualismo distruttore degli uomini. Anche se non ricorda, ha la consapevolezza di avere un compito importante e deve andare via dalla clinica dove è prigioniero di sonni artificiali e interrogatori sospetti.
In entrambi i casi, il protagonista cerca disperatamente di conoscere la verità, la missione da compiere. Sa che “le cose non sono come sembrano” e che spesso si vede solo ciò che si è disposti a vedere.
Doris Lessing inizia la sua “Discesa all’inferno” facendo girare il lettore in tondo e in tondo e in tondo nel delirio, o quel che sembra essere un delirio, del personaggio principale.

Il lettore è trascinato nel movimento della mente dell’uomo/messaggero, poi messo senza preavviso di fronte alle confidenze delle lettere inviate ai medici della clinica da amici e conoscenti dello smemorato, fin nell’intimità della sua vita di marito, compagno di guerra, collega di università e amico.
Continuando a leggere, il lettore perde la distanza tra la realtà e il flusso di parole e accetta il prezzo da pagare per la conoscenza: l’esclusione dalle persone a detta di Lessing “normali”.
Tra fantascienza e inevitabilità beckettiana, “Discesa all’inferno” è un toccante auspicio all’elevazione dell’individuo a parte di un’entità unica e armonica.

 

La recensione è stata scritta da Maria Elena Giovannini

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